mercoledì 19 dicembre 2012

Aggiornamenti sul progetto Arion

 
 
Esattamente un mese fa avevamo pubblicato la notizia relativa al progetto Arion legato alla salvaguardia dei delfini. - di fianco il link dell'articolo ARION
 
Sotto potete leggere una notizia relativa agli aggiornamenti su questo importante progetto tutto italiano!

Idrofoni per difendere i delfini. E' il sistema adottato nell'ambito del progetto Arion diventato operativo nell'Area Marina Protetta di Portofino. Il passaggio dei delfini e il movimento in loro presenza delle barche da diporto verranno monitorati d'ora in poi grazie a due grosse boe dotate di idrofoni, posizionate in mare.
Il progetto è il primo di questo tipo in Europa. L'obiettivo è di tenere sotto controllo il comportamento dei fruitori dell'Area Marina ed eventualmente intervenire in caso di comportamenti inadeguati. Cofinanziato al 50% dall'Unione europea nell'ambito del programma LIFE+ 2009 e supportato dal ministero dell'Ambiente e dalla Regione Liguria, il progetto Life+ Arion ''Systems for Coastal Dolphin Conservation in the Liguria Sea'' ha preso il via circa un anno fa. Oltre all'Amp, sono coinvolte l'università di Genova (dipartimenti di Fisica e di Biologia della Facolta' di Scienze), la Capitaneria di porto e la Softeco, una società genovese che si occupa di software. L'Area Marina Protetta di Portofino è stata scelta in quanto e' un corridoio ecologico ideale per la presenza di una popolazione residente di delfini.
Life+ Arion , spiegano all'Area Marina Protetta di Portofino, è nato con l'obiettivo principale di «Contribuire efficacemente alla conservazione e valorizzazione del delfino costiero e si propone di utilizzare strumenti che possano contribuire alla gestione delle interazioni tra la specie e le attività nautiche, coerentemente con le finalità delle Aree Marine Protette (Amp) in Mar Ligure e più in generale del Santuario internazionale dei Cetacei "Pelagos". Questo al fine di prevenire il rischio di perdita di habitat, intesa in termini di declino del numero di individui». Oltre alla messa in mare delle boe con gli idrofoni, il progetto prevede anche lo sviluppo di una normativa che regoli la navigazione in presenza dei cetacei, ovvero un protocollo di condotta da seguire in presenza della specie concordato con gli stakeholders (turisti, pescatori professionisti e ricreativi, diportisti, subacquei..ecc) e la Capitaneria di Porto che svolgerà azione di sorveglianza. E' inoltre prevista l'installazione, nei porti turistici attorno all'area marina (Camogli, Portofino, Santa Margherita, Rapallo, Chiavari) di postazioni informatiche (totem) volte a fornire una descrizione delle finalità del progetto, delle problematiche relative alla conservazione della specie, al comportamento da tenere in presenza dei cetacei e l'informazione in tempo reale, riportata su appositi monitor, della posizione dei delfini nell'area del progetto. Le stesse informazioni devono poi essere riportate in un sito web.
 
Fonte: www.ansa.it

lunedì 3 dicembre 2012

Le meduse e il segreto dell'immortalità

 
Da millenni, l’uomo ha cercato disperatamente la ricetta dell’elisir di lunga vita, il segreto dell’immortalità. Uno studio, iniziato molti anni fa e ripreso nell’ultimo periodo, ha dimostrato come l’immortalità esista, ma, purtroppo non è l’uomo l’essere che può beneficiarne.
Esiste un solo essere vivente che può vivere all’infinito; l’unico che può definirsi a pieno titolo immortale; è la medusa Turritopsis dohrnii, la quale è in grado di trasformarsi di nuovo in polipo e ricominciare da capo la sua vita.
La scoperta risale, addirittura, all’estate del 1988, quando Christian Sommer, un ventenne tedesco studente di biologia marina, si trovava sulla riviera di Rapallo, per studiare piccoli invertebrati simili a meduse o a coralli molli, l’Hydrozoa. Facendo ogni mattina snorkeling nelle acque del mar ligure, Sommer si imbatté in questa particolare specie di medusa, la Turritopsis dohrnii, oggi comunemente conosciuta come la medusa immortale.
Il giovane osservò la medusa per giorni e si accorse che l’essere non solo non moriva, ma sembrava ringiovanire di giorno in giorno fino a ricominciare un nuovo ciclo vitale.
 
La scoperta incuriosì alcuni biologi genovesi che vollero approfondire gli studi su questa particolare specie di medusa e nel 1996 pubblicarono un dossier in cui dimostrarono come questa medusa potesse, in ogni fase della propria vita, trasformarsi di nuovo in un polipo, scampando così alla morte. Questa scoperta, rivelarono gli scienziati, sembrò sfatare la legge fondamentale del mondo naturale, ovvero quella per cui si nasce e poi si muore.
 
Tuttavia, al di fuori dell’ambito accademico, la scoperta non riscosse molto interesse; ma a 16 dalla pubblicazione del dossier, molti sono stati i passi in avanti, si è, infatti, scoperto, che il processo di ringiovanimento della Turritopsis dohrnii è causato da un forte stress ambientale o da aggressioni fisiche. Inoltre, non è da escludere che le cellule della medusa immortale subiscano un processo di transdifferenziazione, ovvero le cellule si convertono da un certo tipo ad un altro, ad esempio, una cellula della pelle che si trasforma in una cellula nervosa; come avviene nelle cellule staminali umane.
 
L’inversione del ciclo della vita rimane comunque un mistero; coltivare in laboratorio questa medusa è un’impresa a dir poco ardua; finora, l’unico ad esserci riuscito è il giapponese Shin Kubota; il quale accudisce e studia il suo esemplare da 15 anni.
Negli ultimi decenni la medusa immortale si è diffusa in tutti gli oceani del mondo; probabilmente sfruttando l’autostop delle navi da carico; la specie è molto diffusa, oltre che nel Mediterraneo, anche a largo delle coste di Panama, della Spagna, della Florida e del Giappone. Un’invasione silenziosa di un essere immortale.
 
 

martedì 13 novembre 2012

I progetto Arion a Portofino

 
 
 
Circa un anno fa nell'Area marina protetta (Amp) di Portofino ha preso il via il progetto Life + Arion ‐ "Systems for Coastal Dolphin Conservation in the Liguria Sea" per la conservazione dei tursiopi (Tursiops truncatus) nel quale, oltre all'Amp, sono coinvolte l'università di Genova (dipartimenti di fisica e di biologia della Facoltà di scienze), la Capitaneria di porto e la Softeco, una società genovese che si occupa di software. L'Amp di Portofino è stata scelta in quanto è un corridoio ecologico ideale per la presenza concomitante di una popolazione residente di tursiopi e di una forte attività antropica. Life+ Arion è nato con l'obiettivo principale di «Contribuire efficacemente alla conservazione e valorizzazione del delfino costiero (tursiope), si propone di utilizzare strumenti che possano contribuire alla gestione delle interazioni tra la specie e le attività nautiche, coerentemente con le finalità delle Aree Marine Protette (Amp) in Mar Ligure e più in generale del Santuario internazionale dei Cetacei "Pelagos". Questo al fine di prevenire il rischio di perdita di habitat, intesa in termini di declino del numero di individui».

«In poche parole - spiega Valentina Cappanera una collaboratrice dell'Amp di Portofino - verranno installate sul fronte sud del Promontorio di Portofino, due boe con alcuni idrofoni che monitoreranno il passaggio dei delfini e il movimento delle barche da diporto in loro presenza. Il monitoraggio consentirà di tenere sotto controllo il comportamento dei fruitori dell'Amp ed eventualmente intervenire in caso di comportamento inadeguato. La messa a mare delle boe dovrebbe avvenire a breve, tra la metà e la fine di novembre. Il fulcro di Arion e infatti «L'implementazione di sistemi subacquei di rilevazione dei tursiopi in grado di identificare le minacce sugli stessi, prevenire collisioni ed altri rischi, diffondendo in tempo reale informazioni sulla presenza dei delfini».

Il progetto Arion, cofinanziato al 50% dall'Unione europea nell'ambito del programma LIFE+ 2009 e supportato dal ministero dell'ambiente e dalla Regione Liguria, prevede: La messa in mare nell'Amp Portofino di due stazioni sottomarine di rilevamento acustico volte all'identificazione e tracciamento della presenza di cetacei e di natanti all'interno dell'Amp e nelle acque circostanti; Lo sviluppo di una normativa che regoli la navigazione in presenza dei cetacei, ovvero un protocollo di condotta da seguire in presenza della specie concordato con gli stakeholders (turisti, pescatori professionisti e ricreativi, diportisti, subacquei..ecc) e la Capitaneria di Porto che svolgerà azione di sorveglianza in merito; L'installazione, nei porti turistici attorno all'area marina (Camogli, Portofino, Santa Margherita, Rapallo, Chiavari) di postazioni informatiche (totem) volte a fornire una descrizione delle finalità del progetto, delle problematiche relative alla conservazione della specie, al comportamento da tenere in presenza dei cetacei e l'informazione in tempo reale, riportata su appositi monitor, della posizione dei delfini nell'area del progetto; Un sito web dove vengono riportate le stesse informazioni; • report periodici a giornali (quotidiani locali e nazionali, periodici specializzati, televisione) dello stato di avanzamento del progetto e dei risultati ottenuti; L'identificazione ed il censimento dei delfini frequentatori dell'area.

Quando il sistema di idrofoni sarà installato, trasmetterà in tempo reale la posizione dei cetacei alla Direzione Marittima di Genova che provvederà ad informare le imbarcazioni presenti nell'area. La stessa informazione verrà contemporaneamente riportata sui totem nei porti turistici vicini all'Amp di Portofino. «Poiché il sistema di idrofoni sarà in grado di tracciare anche il movimento delle barche a motore - spiegano all'Amp - sarà possibile verificare in tempo reale anche il rispetto dell'ordinanza di navigazione dando la possibilità ai mezzi della Guardia Costiera, in caso di mancato rispetto, di intervenire».
 
 

venerdì 26 ottobre 2012

Le balene sono diventate più silenziose

 
Cresce la preoccupazione che il rumore generato negli oceani dall'uomo possa danneggiare gli animali marini che si basano sul suono per comunicare e navigare. A segnalarlo è la ricerca condotta da Michael Stocker e Tom Reuterdahl, dell'istituto Ricerca e conservazione dell'oceano di Lagunitas, in California, e presentata a Kansas City, nel convegno dell'Acoustical Society of America (Asa).
 
Secondo lo studio il rumore di fondo degli oceani sia diventato fino a dieci volte più forte rispetto a 50 anni fa. Un nuovo modello scientifico suggerisce che 200 anni fa, prima dell'era industriale della caccia alle balene, il rumore marino era ancora più forte di quello attuale a causa dei suoni emessi dalle balene. Utilizzando le stime della popolazione storica, gli studiosi hanno assegnato dei "valori di generazione sonora" alle specie di cui disponevano dati utili sulla vocalizzazione. "Ad esempio, 350.000 balenottere nel Nord Atlantico potrebbero aver contribuito a generare 126 decibel nel livello del suono dell'ambiente oceanico agli inizi del 19 secolo, come un moderno concerto rock", osserva Stocker. Rumore che sarebbe stato emesso ad una di frequenza di 18-22 hertz. Secondo i ricercatori, l'uso dei documenti di caccia per determinare la quantità di balene pescate durante l'epoca della caccia alla balena a livello industriale risulta difficile, perché "i capitani venivano tassati sulle loro catture e questo era un incentivo a 'truccare' i numeri", spiega Stocker. Ad esempio, per quanto riguarda i territori russi, solo in seguito al crollo dell'Unione Sovietica cominciarono ad emergere i dati reali su questa pratica. "Verso la metà degli anni '60 le balene cacciate erano 48.000 invece che le 2.710 indicate in precedenza''. Secondo lo studioso "si può supporre che gli animali si siano adattati al rumore biologico nel corso degli anni, ma non può essere il caso del rumore di origine umana, che è spesso più ampia banda e diversamente strutturato dal rumore naturale e con effetti probabilmente differenti sugli animali.
 
Fonte: www.ansa.it

martedì 9 ottobre 2012

L'archeologia può essere utile per studiare i pesci!

 
Nel post precedente abbiamo riportato la sconfortante notizia che a causa del riscaldamento globale nel giro di qualche decennio vedremo pesci sempre più piccoli.
In questo post pubblichiamo un'altra notizia legata sempre alla taglia dei pesci!
 
Chi ritiene che le materie umanistiche siano inutili nella società di oggi, dovrà ricredersi leggerndo l'esempio di questo studio recentemente pubblicato sulla rivista Scientific American e su Frontiers in Ecology and the Environment.
Tutto è partito con un mosaico romano custodito nel Bardo National Museum di Tunisi: l'opera raffigura una cernia bruna così grande da essere in grado di mangiare un pescatore. I due autori della ricerca, Paolo Guidetti dell'università del Salento e Fiorenza Micheli della Stanford University, hanno poi effettuato confronti con altri reperti simili, per verificare che la rappresentazione tunisina non fosse frutto solo di una "licenza artistica" dell'artigiano ideatore della raffigurazione.
Su 37 mosaici etruschi, greci e romani presi in esame, sono state individuate 23 cernie brune, tutte di taglia maggiore rispetto a quelle attuali, tanto da aver meritato, in alcuni casi, l'appellativo di "mostri marini". I metodi di pesca - con reti e arpioni - sono poi risultati molto diversi da quelli di oggi, se non inefficaci, perché questi pesci vivono molto in profondità.
I dati raccolti consentono di affermare che al di fuori delle aree protette le cernie non stanno recuperando le dimensioni originali, e anche all'interno di queste non sono grandi come qualche millennio fa. Secondo Micheli "Una indicazione che si potrebbe trarre è che servirebbe una moratoria totale sulla pesca delle cernie, ma questo è molto difficile, perché questi pesci sono uno degli obiettivi preferiti della pesca sportiva".
 
 

mercoledì 3 ottobre 2012

I pesci si restringono?!



La ricerca è stata pubblicata dal giornale Nature Climate Change.

Nel 2050, il più grande pesce di mare potrebbe avere dimensioni inferiori del 25 per cento rispetto a quelle attuali a causa del riscaldamento globale. Lo rivela un nuovo studio, ripreso dal The Indipendent. Oceani più caldi porteranno meno ossigeno disciolto, determinando una crescita più contenuta dei pesci e costringendoli a spostarsi verso acque più fredde, indica la ricerca pubblicata dal giornale Nature Climate Change. Gli scienziati prevedono che una crescita delle temperature globali nei prossimi decenni provocherà un calo tra il 14 e il 24 per cento delle dimensioni dei pesci. Una previsione fondata su uno studio oltre 600 specie di pesci d'acqua salata.
 
 
Fonte: www.ansa.it

sabato 1 settembre 2012

L'intelligenza dei delfini

 
Che fossero tra gli animali più intelligenti del mondo marino è cosa nota. Ora però ai delfini viene riconosciuta anche una particolare abilità matematica, diversa ma probabilmente superiore rispetto a quella già riscontrata in altre specie, come gli scimpanzè, i pappagalli e persino i piccioni.
Si tratterebbe, spiega sui Proceedings of the Royal Society A Thimoty Leighton — professore di acustica sottomarina all'Università di Southampton — della capacità di applicare dei processi di matematica non lineare alla caccia della sardina.
Si tratta di questo: una delle strategie utilizzate dai delfini (ma anche da alcuni cetacei, per esempio dalla Megaptera novaeangliae, o balena gobba) per procacciarsi il cibo consiste nel circondare un banco di pesci con una nuvola di bollicine d'aria, intrappolandolo.
"A prima vista", spiega Leighton, "non si tratta di un'operazione particolarmente intelligente: perché in queste condizioni, il sonar — cioè il sistema di ecolocalizzazione di cui si servono i delfini per ricevere informazioni sul mondo circostante - non è in grado di funzionare, visto che le bollicine fanno rimbalzare il segnale in tutte le direzioni, disperdendolo. O meglio", continua il ricercatore "nessun apparecchio sonar costruito dall'essere umano è in grado di funzionare in un'acqua così "gasata". Quello dei delfini, invece, sembra funzionare assai bene". Com'è possibile?

Incuriositi dalla faccenda, Leighton e i suoi colleghi hanno cominciato a studiare gli impulsi emessi dagli animali, generandoli in condizioni sperimentali: in una vasca piena d'acqua hanno posto una piccola sfera d'acciaio (il pesce) circondata da una nuvola di bollicine, producendo poi dei segnali simili a quelli emessi dai delfini. Poiché in natura l'ampiezza di queste emissioni non è sempre la stessa, i ricercatori hanno fatto seguire al primo un impulso più debole: se il primo aveva valore 1, il secondo aveva valore 1/3. Poi, riproducendo quanto probabilmente avviene nel cervello di questi mammiferi, Leighton e colleghi hanno amplificato l'eco del secondo segnale, quello più debole, fino a portarlo allo stesso livello del primo. Alla fine, dunque, le due eco rimbalzate dalla sfera d'acciaio erano della stessa ampiezza. "Ma per raggiungere questo risultato, un delfino deve mettere in atto un procedimento matematico complesso, cioè ricordare il rapporto tra i due impulsi emessi, e calcolare poi di quanto la seconda eco vada aumentata per raggiungere quella di maggior ampiezza", continua Leighton.
Non è tutto. Le bollicine di gas generano dei falsi allarmi, perché diffondono il segnale in tutte le direzioni. E un delfino non può permettersi di perdere energie e tempo preziosi mentre le sue prede si danno alla fuga. Dunque ci deve essere un secondo passaggio che consente al delfino di distinguere l'eco generata dalle bollicine da quella generata dalla preda. Questo è possibile se si presuppone che il delfino sia in grado di compiere l'operazione inversa alla prima, cioè di sottrarre un'eco dall'altra dopo aver moltiplicato per tre la più debole. "In pratica", spiega Leighton, "la procedura matematica consente all'animale prima di 'vedere' la preda, e poi di 'nasconderla', così da assicurarsi che non si tratti di un falso allarme".
Se fosse possibile riprodurre questo modello, dicono i ricercatori, potremmo avere sonar in grado di identificare le mine anche nelle più agitate acque superficiali, o addirittura ordigni esplosivi nascosti in mezzi diversi dall'acqua, nei muri o nel fogliame.

martedì 14 agosto 2012

La Tartaruga Liuto


Visto il ritrovamento davanti all'Isola del Tino di una tartaruga liuto, vediamo di sapere qualcosa di più su questa specie.

La specie liuto è la più grande tartaruga esistente. Anche se, comunque, in realtà non supera mai i due metri di lunghezza e i 600 kg di peso.
Il carattere peculiare della Tartaruga liuto deriva dall’assenza di un carapace osseo. Al suo posto c’è una pelle simile al cuoio supportata da piccole placche ossee, indipendenti le une dalle altre, disposte in creste longitudinali (da 5 a 7).
Manca ogni tipo di struttura epidermica cornea: scudi sul carapace e sul piastrone, squame sulla pelle, placche cornee sulla testa e sulle mandibole.
Le natatoie anteriori sono particolarmente lunghe: negli adulti possono raggiungere un’apertura di circa 2,5 metri.
Sul dorso il colore predominante è il nero, spesso punteggiato di bianco (più evidente nei giovani); il ventre è biancastro o rosa chiaro.

Si nutre principalmente di organismi planctonici: salpe, calamari, larve di crostacei e pesci. Il tutto, se capita, accompagnato da piante marine e, perfino, un pò di meduse delle quali non temono (essendone probabilmente immuni) il veleno secreto. Una dieta che ben si adatta alla loro debole ranfoteca (bocca). L'ingestione viene poi favorita da un esteso "tappeto" di papille retroverse presente nel palato, nella gola e nell'esofago.

La deposizione è l’unico motivo che spinge gli esemplari di tartaruga liuto a lasciare le acque pelagiche in cui vivono. E, di conseguenza, è anche l'unico aspetto conosciuto della biologia di questi animali molto riservati. La deposizione avviene, probabilmente ad anni alterni, di notte e può ripetersi più volte durante la stessa stagione riproduttiva: da marzo a luglio nell'emisfero boreale o da ottobre a febbraio in quello australe.
Per costruire il nido scava, come altre specie, una buca nella sabbia di varie dimensioni. Il numero di uova deposte può variare, a seconda dell'area geografica, da 50 a 100 cm. Dopo circa 60-70 giorni di schiusa nascono dei piccoli, molto simili agli adulti, di 5-6 cm. Le tartarughine hanno il guscio e la pelle coperta da piccole scaglie (che "indosseranno" per un paio di mesi). Fin qui niente di anomalo. Ma è proprio a questo punto che anche gli osservatori meno esperti saprebbero riconoscerla distinguendola da altre specie: non c'è infatti Tartaruga liuto, grande o piccina, che dovendo orientarsi non ruoti numerose volte su sé stessa per ritrovare la via del mare.

La Tartaruga liuto è una specie rara, caratterizzata tuttavia da un’ampia diffusione: la troviamo in tutti gli oceani circumtropicali e nel Mar Mediterraneo, dove però non nidifica.

Sotto le foto dell'esemplare ritrovato al Tino. Foto gentilmente concesse da Osvaldo Gostinelli che ringraziamo.




giovedì 26 luglio 2012

Come le specie invasive cambiano le abitudini alimentari dei pesci


Un'interessante ricerca affronta il problema dell'invasione della Caulerpa racemosa.
Un gruppo di ricercatori italiani ha pubblicato su PlosOne l'interessante studio "Subtle Effects of Biological Invasions: Cellular and Physiological Responses of Fish Eating the Exotic Pest Caulerpa racemosa". La ricerca affronta il problema dell'invasione dei fondali marini del Mediterraneo da parte della Caulerpa racemosa penetrando anche nelle Aree marine protette (Amp) e modificando la struttura degli habitat e gli schemi distributivi degli organismi che ci vivono.
I ricercatori coordinati dall'Università del Salento e dal Consorzio nazionale interuniversitario per le scienze del mare (Conisma) hanno studiato le coste dell'Amp pugliesi di Torre Guaceto e Porto Cesareo, per valutare la presenza e l'importanza dell'interazione tra le alghe invasive e la specie endemica del sarago maggiore (Diplodus sargus) ed hanno scoperto che questo pesce mangia la Caulerpa racemosa e accumula l'alcaloide caulerpina in molti dei suoi tessuti. Lo studio dimostra che la presenza della Caulerpa racemosa ha cambiato le abitudini di foraggiamento del sarago maggiore: « Nelle zone invase, abbiamo trovato una elevata frequenza di occorrenza di C. racemosa i nel contenuto dello stomaco di questo pesci onnivori (72,7 e 85,7%), mentre l'alga non è stata rilevata nei pesci da una zona di controllo. Abbiamo anche trovato un significativo accumulo di caulerpina, uno dei principali metaboliti secondari di C. racemosa, nei tessuti del pesce». Il livello di caulerpina (una tossina contenuta in queste alghe "killer" che viene liberata quando ne viene recisa una parte), nei tessuti dei saraghi è stato utilizzato come indicatore dell'esposizione trofica dell'alga invasiva e collegato ad alterazioni cellulari e fisiologiche che sono state osservate.
I risultati dello studio hanno quindi rivelato che «l'inserimento di specie alloctone nei sistemi subtidali può alterare le reti trofiche e può rappresentare un importante meccanismo indiretto che potrebbe contribuire a influenzare le variazioni degli stock ittici e, anche, l'efficacia dei regimi di protezione.
Le specie aliene, come la Caulerpa racemosa, che hanno invaso il Mar Mediterraneo e le sue Amp sembrano avere un impatto maggiore di quanto si pensasse sulle abitudini alimentari di alcune specie demersali, colpendo le popolazioni di pesci.
Coniugando chimica organica, ecotossicologia ed ecologia, questo studio cerca di chiarire il potenziale impatto della C. racemosa sul D. sargus, fornendo nuove informazioni sui meccanismi cellulari attraverso i quali le invasioni biologiche possono influenzare la biodiversità e, quindi, l'efficacia dei regimi di protezione.
Negli stomaci dei saraghi maggiori sono stati identificati 11 principali alimenti e trea questi la Caulerpa racemosa è risultato il più importante per frequenza e rilievo.
Il passaggio da una dieta composta da animali e piante a una dieta basata principalmente sull'alga invadente potrebbe influenzare le proprietà organolettiche e la qualità nutriente di questa risorsa ittica importante dal punto di vista economico. Il valore nutrizionale, il gusto e il sapore del filetto del pesce infatti, dipendono sia dalla quantità di grassi e dalla composizione degli acidi grassi che dagli aminoacidi del muscolo che sono tutti fortemente influenzati dalla dieta.

domenica 15 luglio 2012

A proposito di acciughe...


Dopo aver postato sulla sezione principale un video con un banco di acciughe in movimento vediamo di saperne un pò di più del perchè alcuni pesci, soprattutto quelli di piccole dimensioni, si riuniscono in gruppo e come fanno a stare così vicini...

Il tutto si potrebbe sintetizzare con il motto "l'unione fa la forza": insieme per attaccare e difendersi

La strategia di formare un gruppo risulta efficace perchè l'ambiente da controllare è particolarmente ampio e il pericolo può arrivare da qualunque direzione. Essere soli in mare aperto può portare a morte sicura mentre essere in tanti dà una maggiore opportunità di sopravvivenza.

Il banco appare come un grosso pesce.
Il gruppo si chiama banco e al suo interno non ci sono regine o maschi dominanti ed i pesci sono tutti uguali.
Nel banco i pesci nuotano tutti assieme, nella stessa direzione e si spostano con la stessa velocità.
I pesci sono molto vicini tra di loro ma non si toccano mai perchè potrebbero ferirsi visto che la loro pelle è molto delicata. Come riescono a fare tutto questo? Utilizzano la vista e la linea laterale.


In caso di attacco il banco si muove con cambi veloci di direzione che disorientano il predatore: il banco può aprirsi a ventaglio o effettuare un'apertura a fontana con 2 getti che si ricompongono dietro il predatore, oppure formare più gruppi con un numero minore di individui.
In questo modo il predatore non sa proprio che pesci prendere!

Però i predatori hanno affinato diverse tecniche di caccia ai banchi: si radunano formando grossi gruppi che attaccano i banchi da più direzioni inmodo da far disperdere i pesci e per catturare quelli che non riescono a stare uniti al banco

martedì 26 giugno 2012

Il polmone di mare


In questi giorni sono stati avvistati lungo le nostre coste numerosi esemplari di Rhizostoma pulmo, medusa meglio conosciuta come polmone di mare.
Lo scorso anno se ne erano viste veramente poche... quest'anno invece c'è una controtendenza.

Vediamo di scoprire qualcosa in più su questa medusa.

Si tratta della più comune medusa dei nostri mari e deve il proprio nome specifico alle ritmiche contrazioni dell'ombrella che richiamano alla memoria l'atto respiratorio (pulmo = polmone). Potendo raggiungere i 50–60 cm di diametro e i 10 kg di peso rappresenta la più grande medusa del Mediterraneo. Il corpo è formato da una grande campana o “ombrello” e da una struttura inferiore allungata, detta “manubrio” che si divide in otto braccia o tentacoli, terminanti con delle clave tricuspidate. Il colore è trasparente negli esemplari più giovani e diviene lattiginoso negli esemplari adulti, che presentano il bordo dell’ombrella di un blu-violetto acceso. Le Rizostomee sono meduse dotate di 16 bocche e si nutrono predando piccoli organismi pelagici che catturano con tentacoli dotati di nematocisti velenose che paralizzano la preda.
Gli cnidociti (cioè le cellule urticanti) dei polmoni di mare non sono urticanti per l'uomo, poichè troppo blandi. Fra le braccia è possibile scorgere spesso piccoli pesciolini che trovano protezione e sicurezza di un riferimento pelagico ("casa galleggiante"), come i piccoli carangidi del sugarello (Trachurus spp.).

martedì 29 maggio 2012

Le Praterie di Posidonia oceanica e la CO2



Nature Geoscience pubblica lo studio "Seagrass ecosystems as a globally significant carbon stock" di un team internazionale di ricercatori provenienti da Australia, Danimarca, Gran Bretagna, Greecia, Spagna, ed Usa, sottolineando che «La protezione di carbonio organico stoccato nelle foreste è considerato come un metodo importante per mitigare il cambiamento climatico. Come gli ecosistemi terrestri, gli ecosistemi costieri stoccano grandi quantità di carbonio e ci sono iniziative per proteggere questi magazzini di "blue carbon".

Senza entrare in dettagli complicati, dallo studio viene quindi fuori che le praterie sottomarine sono una parte vitale della soluzione al cambiamento climatico e che, per m2, le fanerogame sono in grado di stoccare fino a due volte più CO2 delle foreste temperate e tropicali del mondo. I risultati infatti dimostrano che le praterie sottomarine costiere stoccano fino a 83.000 tonnellate di carbonio per km2, soprattutto nei fondali sui quali crescono, mentre un tipico suolo forestale terrestre stocca 30.000 tonnellate per km2, la maggior parte dei quali sottoforma di legno. Inoltre, sebbene le praterie di fanerogame occupino meno dello 0,2% degli oceani del mondo, immagazzinano oltre il 10% di tutto il carbonio inghiottito ogni anno dal mare.

Le praterie di fanerogame marine sono da tempo conosciute per i molti benefici ecosistemici che producono: filtrano i sedimenti degli oceani; proteggono le coste dalle inondazioni e dalle tempeste e sono l'habitat e la nursery per moltissimi pesci e per innumerevoli altre specie marine. «I nuovi risultati - dicono gli scienziati - sottolineano che la conservazione e il ripristino delle praterie di fanerogame possono ridurre le emissioni di gas serra ed incrementare gli stoccaggi di carbonio, offrendo allo stesso tempo importanti "servizi ecosistemici" per le comunità costiere».

giovedì 26 aprile 2012

Spiaggiamenti di Velella velella


 Due i fenomeni principali: il primo è in Toscana, precisamente a Marina di Carrara, il secondo in Liguria, nel Golfo dei Poeti a Lerici.
Sulla spiaggia di Marina di Carrara c'è un'invasione di migliaia di piccole "meduse" blu che ha ricoperto l'arenile per un tratto di circa due chilometri. Si tratta di  colonie di Velella velella, chiamate comunemente anche Barchetta di San Pietro. Le Velella velella, tipiche del Mediterraneo, viaggiano in grandi gruppi spinte dal vento e dalle correnti e, se il vento le spinge verso la costa, finiscono sulle spiagge, conferendo loro un caratteristico colore azzurro.
Un fenomeno analogo ha avuto luogo qualche giorno fa a Lerici, come del resto avviene da circa 8 anni. 


Ma cos'è Velella velella?

Velella non è una medusa, è una colonia galleggiante di polipi (gli stadi del ciclo delle meduse che di solito vivono attaccati alle rocce) e da questi polipi vengono prodotte piccole meduse di pochi millimetri che nessuno nota. Il nome Velella definisce una caratteristica importante dalla colonia: una vela.Velella galleggia sulla superficie del mare e si fa portare dal vento. I suoi polipi, attaccati sotto la base da cui spunta la vela, sono sospesi nell'acqua sottostante e catturano tutti gli animaletti che si avventurano in superficie. 
Per molti anni, a partire dagli anni 70 del secolo scorso, le velelle non sono mai state così abbondanti. Probabilmente erano influenzate anche dall'inquinamento da petrolio. Il petrolio galleggia, e anche le velelle. E quindi la loro presenza ci dice che, almeno nel momento in cui sono presenti, la superficie del mare non è inquinata.

  Le Velelle mangiano tutto quello che trovano subito sotto la superficie del mare. Possono essere piccoli crostacei, ma potrebbero essere anche le uova galleggianti di specie di pesci, come ad esempio le acciughe. Le acciughe producono uova galleggianti proprio a partire da marzo. La presenza di questi banchi di velella proprio nel periodo di deposizione delle uova di acciuga potrebbe avere un forte impatto sulla riproduzione di questa specie ittica. E forse di altre ancora. Se la riproduzione ha un minor successo, dovuto a predazione sulle uova e sulle larve, poi ci saranno minori rese di pesca. I biologi della pesca devono tener conto di queste situazioni, perché se per caso la pesca dell'acciuga dovesse avere una contrazione, forse la risposta a una domanda che magari si porrà tra qualche mese potrebbe essere a portata di mano oggi. 

giovedì 12 aprile 2012

Il dna dei pesci svela perche' il mare è ricco di specie


L'analisi del Dna dei pesci osserva per la prima volta "in diretta" i meccanismi che controllano la nascita di nuove specie e spiega perche il mare è così ricco di specie diverse. Il risultato, pubblicato su Nature, si deve al gruppo di ricerca coordinato da David Kingsley, dell'università californiana di Stanford.
Lo studio è stato condotto su una specie di pesci da tempo studiata dai genetisti, gli spinarelli. I ricercatori hanno analizzato il Dna di 21 coppie di spinarelli, prelevati da popolazioni marine e di acqua dolce, ed hanno identificato regioni del genoma che sono associate con l'adattamento di ai cambiamenti ambientali e che favoriscono quindi la formazione di nuove specie.
I meccanismi che controllano il modo in cui i cambiamenti genetici permettono di adattarsi a nuovi ambienti sono ancora in gran parte sconosciuti. Per questo i ricercatori hanno deciso di osservare "in diretta" i meccanismi che permettono la nascita di nuove specie studiando un pesce come lo spinarello, che è stato capace di adattarsi dalla vita in mare a quella in acqua dolce. In questo modo è stato possibile vedere che una nuova specie nasce solo quando le mutazioni avvengono in porzioni molto grandi del Dna, al punto che gli individui non riescono più a riprodursi fra loro in modo efficace e segnano la comparsa di una nuova specie.

Fonte: www.ansa.it

giovedì 29 marzo 2012

Le alleanze dei delfini



Proprio come gli uomini, anche i delfini si organizzano in alleanze simili alle gang, dove i maschi sorvegliano e difendono le loro femmine contro gruppi rivali, e a volte cambiano schieramento. E' quanto ha scoperto uno studio condotto per 5 anni sui delfini tursiopi (detti anche a naso di bottiglia, quelli più studiati) nella Shark Bay dell'Australia occidentale, pubblicato sulla rivista della Royal Society 'Proceedings B'.
Questi cetacei vagano per centinaia di km quadrati, spesso incontrando anche altri gruppi di delfini. Gli scienziati hanno così scoperto che i delfini vivono in una società aperta, in cui non sorvegliano un determinato territorio. Viaggiano in branchi e spesso si incontrano con rivali stranieri. Quando accade, devono decidere come rispondere. E lo fanno organizzandosi in 3 diversi tipi di alleanze. La prima è una coppia o un trio, che lavorano insieme per catturare e radunare le femmine fertili. "Questi 'consorzi' possono durare oltre un mese - spiega Richard Connor, uno dei ricercatori - c'é poi un secondo tipo di alleanza, in cui gli animali formano dei team da 4 a 14 maschi, che attaccano gli altri gruppi per prendere le femmine o difendersi da assalti". L'altra alleanza è quella che vede relazioni amichevoli tra questi gruppi più grandi, dove i delfini uniscono le forze per formare un esercito più grande, lavorando insieme per difendere le loro femmine da gruppi più grandi e aggressivi. "Solo gli uomini e i delfini della Shark Bay - continua - hanno livelli multipli di gruppi sociali. Gli animali devono essere intelligenti e svegli per operare in questo tipo di società, dove spesso si incontrano con altri esemplari sconosciuti e decidere se sono una minaccia o degli alleati"

Fonte: www.ansa.it

lunedì 19 marzo 2012

Lo squalo volpe


Siccome in tanti mi stanno chiedendo informazioni sullo squalo volpe ecco un post dedicato a questo animale poco conosciuto

Lo squalo volpe (Alopias vulpinus Bonnaterre, 1788) è uno squalo lamniforme della famiglia degli Alopidi.
Coi suoi 6 m di lunghezza, rappresenta la specie più grande fra le tre ascritte al genere Alopias: la metà della lunghezza totale, tuttavia, spetta alla parte superiore della caratteristica coda, che l'animale utilizza come scudiscio per stordire e sopraffare le prede. Molto diffuso nei mari tropicali, lo squalo volpe nuota spesso in superficie in aree costiere, ma è presente anche alla profondità di 350 m.

Si tratta di grandi nuotatori solitari, che percorrono instancabilmente gli oceani alla ricerca di cibo: sebbene sia possibile osservarli in coppie o in gruppetti, tali assembramenti sono il più delle volte dovuti alla presenza di un'abbondante fonte di cibo nelle vicinanze. A volte questi squali possono essere osservati mentre si esibiscono in salti e acrobazie fuori dall'acqua, similmente a quanto osservabile in molti cetacei: si pensa che questo insolito comportamento abbia la stessa funzione del breaching di questi ultimi, oppure abbia un qualche ruolo nella lotta contro i parassiti.

La quasi totalità (fino al 97%) della dieta dello squalo volpe è costituita da piccoli pesci ossei pelagici gregari, come aringhe, sgombri, aguglie, pesci serra e pesci lanterna di cui segue le rotte pelagiche.. Di tanto in tanto essi si cibano anche di prede di maggiori dimensioni (come i sauri), così come di calamari e di altri invertebrati pelagici. Di conseguenza si può avvicinare anche a costa nel caso in cui le sue prede si avvicinino alla terraferma

Gli squali volpe tendono ad essere abbastanza selettivi ed abitudinari per quanto riguarda le prede, concentrandosi su poche specie, ma divenendo più opportunisti nei periodi caldi.

Per cacciare le proprie prede, lo squalo volpe si serve della lunga coda per fendere l'acqua, compattando così i banchi e potendosi nutrire agevolmente attraversandoli senza farli disperdere: spesso quest'azione viene svolta in coppie o in piccoli gruppi, che tuttavia non sono precostituiti ma si incontrano casualmente sul luogo del banchetto.

Si tratta di una specie diffusa in tutti i mari temperati e subtropicali del mondo: La sua così ampia diffusione è dovuta al fatto che gli squali volpe sono animali estremamente mobili che sono soliti compiere lunghe migrazioni, nella maggior parte dei casi dovute allo spostamento delle prede.

Sebbene La maggior parte degli avvistamenti siano avvenuti nei pressi della superficie, sono stati ripresi squali volpe fino a profondità di 550 m e probabilmente questa specie può spingersi anche a profondità maggiori. Mentre durante il giorno rimangono a più di 100 m di profondità, durante le ore notturne gli squali volpe risalgono a profondità minori per trovare il cibo.

A dispetto delle dimensioni abbastanza ragguardevoli, gli squali volpe non costituiscono un pericolo per l'uomo in quanto esso non è visto come potenziale fonte di cibo: si tratta di animali che ad ogni modo vanno avvicinati con cautela in quanto capaci di infliggere profonde ferite coi denti e di spezzare le ossa con la potente coda. Tale potenziale pericolosità viene però annullata dal fatto che questi squali si rivelino abbastanza timidi e risultino difficili da osservare per i subacquei.

un pericolo concreto per questo squalo: gli squali volpe cadono infatti abitualmente vittima dei palamiti e dei sistemi di pesca utilizzati per catturare i pesci spada, specie nell'Atlantico[35]. Oltre alla pesca accidentale, esiste un fiorente business che riguarda la pesca dello squalo in generale e minaccia anche questa specie: la pelle viene trattata e commercializzata sottoforma di cuoio, la carne viene commercializzata salata o affumicata per il consumo umano, l'olio estratto dal fegato viene utilizzato in farmaceutica e cosmetica, ma il pezzo pregiato sono le pinne, che vengono pagate a peso d'oro sui mercati asiatici in quanto ingrediente principe della zuppa di pinne di pescecane. Perfino negli Stati Uniti sussisteva una flotta di imbarcazioni preposte alla pesca dello squalo volpe, che nel 1982 arrivò a contare 228 imbarcazioni, garantendo un pescato annuo di 1091 tonnellate[36]: attualmente la pesca allo squalo volpe appare in netta diminuzione, soprattutto a causa del drastico calo del numero di esemplari nella zona. Lo squalo volpe rappresenta inoltre un ambitissimo trofeo per i pescatori sportivi, in quanto ritenuto (assieme allo squalo mako) un fiero avversario molto difficile da sopraffare.

Tutti questi fattori hanno fatto sì che lo status delle tre specie del genere Alopias venisse modificato nel 2007 dall'IUCN, passando da "dati insufficienti" a "vulnerabile".

martedì 6 marzo 2012

Le balene stressate dal rumore cambiano lingua


 I mammiferi marini disturbati dalle eliche delle navi.
Troppo rumore provoca stress, anche negli animali. Lo sanno bene le balene, stressate dal rumore delle eliche delle navi che attraversano gli oceani, emettendo suoni che hanno la stessa frequenza di quelli usati da questi cetacei per comunicare. Tanto che molte hanno iniziato a cambiare le loro modalità di chiamata nei posti rumorosi.
A scoprirlo uno studio, pubblicato sulla rivista Proceedings B e condotto nella Baia di Fundy in Canada sulle balene del Nord-Atlantico (Eubalaena glacialis), riporta l'Ansa. Hanno misurato il livello degli ormoni dello stress nelle feci di questi animali, riscontrando quantità più alte nelle aree a maggiore alta densità di navigazione. "Studi precedenti avevano mostrato che le balene alterano i loro schemi di vocalizzazione in ambienti rumorosi, proprio come succede a noi umani ad esempio ad una festa - spiegano gli studiosi - ma questa è la prima volta che si documenta l’impatto dello stress a livello psicologico". Il rumore negli oceani è aumentato molto negli ultimi anni con la crescita del traffico marittimo globale. Nel nord-est del Pacifico il rumore è di 10-12 decibel maggiore che negli anni ’60. Inoltre è aumentato anche il numero delle balene colpite dalle navi o intrappolate nelle reti da pesca. Ora i ricercatori vogliono ampliare lo studio alle balene che vivono nell’emisfero australe, il cui numero è invece in aumento e verificare l’impatto del rumore su di loro.

Fonte: www.mondomarino.net e La Stampa

giovedì 9 febbraio 2012

Le mante sono a rischio di estinzione



Uccisa su larga scala per le sue branchie, considerate un rimedio per il cancro, ora rischia l'estinzione
Non bastavano gli squali, i pesce palla e le balene. Ora nella categoria «a rischio estinzione» rientrano anche le mante, sterminate a causa dell’uso sempre più diffuso delle loro branchie nella medicina cinese. A denunciare il pericolo è l’Ong Shark Savers che, con un dettagliatissimo rapporto dal titolo Manta Ray of Hope: The Global Threat to Manta and Mobula Rays, tratteggia i confini dell’ecatombe.
CINQUECENTO DOLLARI AL CHILO - Il mercato delle branchie varrebbe già 11 milioni di dollari l’anno, spinto dalla convinzione che queste parti stimolino il sistema immunitario e possano guarire una serie di malattie, dai problemi di fertilità ad alcuni tipo di cancro. E nei mercati asiatici la carne di manta viene venduta a 500 dollari al chilo per le sue presunte capacità guaritive. Una credenza che dunque non giova certo alla specie Manta birostris le cui «ali» rischiano di non muoversi più sui fondali degli oceani. «In alcune zone come il mare di Cortez la manta è praticamente scomparsa», si legge nel rapporto. E i numeri non sono meno tranquillizzanti: la sola Sri Lanka è responsabile da sola del 55 per cento del consumo di carne di manta. Poi viene sottolineato come «una forte pressione si registri in diversi Stati asiatici quali India e Indonesia». E non solo. «Se non si farà presto qualcosa, questa specie scomparirà», concludono gli esperti.
UN PICCOLO OGNI TRE ANNI - Ad attrarre i bracconieri però non sono solo le branchie e le loro presunte proprietà benefiche. Fanno gola anche la pelle utile per borsette e scarpe e le cartilagini che vengono spacciate per quelle di squalo. Poi, a mettere a repentaglio il «grande diavolo del mare», ci si mettono pure le sue caratteristiche fisiologiche. La manta, spiegano gli studiosi, è uno degli animali più svantaggiati e meno equipaggiati nella lotta contro la pressione della pesca, perché impiega dieci anni a raggiungere la maturità sessuale e una femmina partorisce un singolo piccolo ogni due o tre anni.
DA VIVE VALGONO DI PIÙ - Ma il paradosso è che, nonostante tutto ciò, le mante continuano a valere più da vive che da morte. «Anche se le branchie hanno un valore, il loro commercio deruba le economie e l’ambiente di una delle creature più carismatiche dell’oceano», spiega Shawn Heinrichs, che ha diretto il team di ricerche. Il tutto mentre ogni singolo esemplare può far guadagnare un milione di dollari all’anno grazie all’ecoturismo. 

 Fonte: www.mondomarino.net e Corriere della Sera

martedì 24 gennaio 2012

Ecosistemi marini a rischio


La concentrazione di anidride carbonica negli oceani è in continuo aumento, con potenziali conseguenze negative sulla vita degli organismi marini.
Due recenti ricerche, condotte da Paolo Domenici dell’Istituto per l’ambiente marino e costiero del Consiglio nazionale delle ricerche di Oristano (Iamc-Cnr) con i ricercatori della James Cook University e dell’ Università di Oslo, evidenziano effetti deleteri e rischiosi sui pesci, come la perdita della naturale tendenza a spostarsi preferenzialmente su un lato davanti a un ostacolo e di quella ad allontanarsi dall’odore di un predatore.
«Il primo studio, effettuato nella barriera corallina australiana e pubblicato su Biology Letters, dimostra con i livelli di CO2 previsti nel 2100 la perdita della lateralizzazione, ovvero della preferenza per il lato destro o sinistro durante gli spostamenti quando si trovano davanti a un ostacolo» spiega Domenici.
«Un altro, appena pubblicato su Nature Climate Change, rileva che i pesci invertono la capacità di allontanarsi dall’odore di un predatore, con ovvie e pericolose conseguenze per la loro sopravvivenza».
Alcuni studi avevano dimostrato gli effetti negativi dell’aumento di anidride carbonica negli oceani per gli organismi con gusci calcarei e le alterazioni sensoriali indotte da tale fenomeno nei pesci.
«Ora abbiamo scoperto che queste disfunzioni comportamentali, di cui non si conosceva il meccanismo, sono dovute al malfunzionamento del GABA-A, un recettore del sistema nervoso centrale con fondamentali effetti su diversi tipi di neuroni che dipende dalle quantità relative di ioni quali cloro e bicarbonato, a loro volta alterate dall’esposizione a livelli elevati di CO2», prosegue il ricercatore Iamc-Cnr.
I ricercatori hanno dimostrato tale meccanismo mediante un esperimento: «Dopo essere stati sottoposti alla alta concentrazione di anidride carbonica, i pesci venivano esposti alla gabazina, una sostanza che blocca il recettore GABA-A: dopo trenta minuti di trattamento tornavano a sfuggire ai predatori e riguadagnavano la loro preferenza laterale» conclude Domenici.
«Poiché tale recettore è quasi universalmente presente nel sistema nervoso centrale degli organismi è perciò possibile che l’incremento negli oceani della CO2, aumentata del 40% negli ultimi due secoli e stimata per la fine del secolo tra 700-900 parti per milione contro le attuali 380 ppm, abbia enormi conseguenze sul comportamento e la sopravvivenza di numerose specie marine».


Fonte: La Stampa e www.mondomarino.net